Cantare, perché?
Avrò avuto otto anni, ma il discorso lo ricordo come fosse adesso: si era in campagna da certi parenti di Carpi e un gruppo di adulti (a me sembravano vecchi) parlavano fra loro di un comune conoscente. E saltò fuori la frase " È uno che non canta mai! ", ma non detta con malanimo, semmai con una punta di pena, come se a quel tale, poveretto, mancasse qualcosa di non poco conto.
Allora capii solo che, per loro, cantare era diverso che per noi di città, e dovettero passare molti anni perché mi rendessi conto di che cosa volesse dire veramente, per loro, il canto.
E scoprii quel mondo in cui i grandi princìpi della natura e della vita (la terra, l'acqua, il fuoco; la nascita e la morte; l'amore e l'odio) erano entità presenti e vicine cui la comunità s'accostava con riti antichi (ma sempre in divenire) nei quali il canto era costantemente presente e il singolo che non partecipava diventava un'eccezione.
Sono passati pochi decenni ed ecco tutto rovesciato: ormai «eccezione» sta diventando colui che canta. In questa nostra "civiltà" che vuole la musica, spesso, come esperienza da subire.
Noi invece con l'entità "coro" vogliamo riproporre l'individuo come "soggetto" della musica e, per di più, protagonista nella diffusione di contenuti che forse hanno tuttora qualcosa da dire.
Giorgio Vacchi