Per amore o per forza
« Pr amåur o par fôrza »: quante volte ho sentito questa frase da ragazzo, quando stavo in campagna, detta così, in dialetto! E spesso accadeva alla fine di certi discorsi seri che gli adulti facevano (c'era la guerra e non mancavano certo i motivi) mentre noi ragazzi si pensava solo a giocare.
Sembrava che quel «per amore» non esistesse e che tutto avvenisse «per forza»: e la cosa mi stupiva ancor più perché usciva dalle labbra di certi personaggi che sprizzavano forza e sicurezza da tutti i pori. Gente che avevo visto affrontare un toro inferocito o sballottare sacchi da un quintale come fossero pagnotte. E per me, gracile esemplare cittadino, quelli erano modelli!
Ne passeranno, di anni, prima che mi rendessi conto che nel mondo contadino quasi tutto avveniva «per forza»: poteva essere il padrone che ti chiedeva qualcosa di più di quanto gli dovevi, e allora giù a sgobbare come una bestia per accontentarlo, sennò ti buttava fuori dal podere; o lo Stato, che ogni tanto inventava una tassa nuova che andava ad assottigliare le già magre scorte, e al contadino non rimaneva che «tirare la cinghia». Poi, ogni pochi anni, lo Stato ti chiedeva i figli per mandarli in guerra: e quelli «per forza» dovevano partire. A casa rimanevano le donne ad ammazzarsi di lavoro in attesa del ritorno degli uomini: quando tornavano.
E anche le donne, poi, se in casa lavoro ce n'era poco, partivano per la risaia, o la filanda: e lì non era certo raro incontrare il padrone, o un capo, che chiedeva qualcosa di più a queste povere ragazze, e non certo «per amore». E chi rimaneva in casa l'aspettava il matrimonio che, però secondo le leggi non scritte della famiglia, era spesso un contratto stipulato dagli anziani, che «per forza» si doveva accettare.
Così, tra tanti momenti vissuti «per forza» e pochi «per amore», si consumava la vita nel mondo contadino: ed anche le espressioni che potrebbero apparire più «superficiali» (e che in verità non lo sono) di quel mondo cioè la tradizione orale e quindi il canto, ci parlano delle condizioni non certo invidiabili dei contadini. Non ci si stupirà quindi se, anche in una selezione così limitata di canti come la presente, appaiono in netta maggioranza le espressioni tristi, legate ai tanti momenti dolorosi della vita con poche, anche se rilevanti, eccezioni.
Nel primo canto, IN MONASTER , la protagonista è una ragazza rinchiusa in convento contro la sua volontà; come dall'interno di un carcere il suo pensiero corre continuamente a ciò che è rimasto fuori, all'amore perduto: «se fossi una formica, da queste mura vorrei passar...».
Ne L'ANELLO si racconta di Rosina che perde l'anello in mare e del pescatore che glielo ripesca: una storia antichissima nota i n tutti i paesi europei e diffusissima in Italia.
In LA FA NIULETA (non credo che queste parole abbiano un senso, ma probabilmente vengono usate come quel «trallallà» che, a volte, ci serve per canticchiare una melodia) si parla di una ragazza poverissima che enumera tutte le cose che «non ha»: i pretendenti non potranno certa mente incolparla di non essere stata sincera!
Nel canto GUARDA LÀ un giovane dichiara il suo amore ad una ragazza bionda: ma ahimè «quel vile di suo padre non è contento»' Un altro amore contrastato.
Ancor peggiore il clima di AVEVO QUINDICI ANNI . È un canto da cantastorie in cui si racconta della triste vicenda di una ragazza, sedotta e abbandonata, che si vendica con una pugnalata al cuore del «traditore».
Ancora tristissimo, addirittura funereo, il clima di A TESTA BASSA , con la protagonista che piange sulla tomba dell'amore scomparso.
Meno cupo, invece, l'ultimo dei canti d'amore qui raccolti: si tratta di una tipica espressione del romanticismo ottocentesco, forse d'autore, passata nella tradizione popolare col titolo L'USIGNOLO e che riproponiamo con 1'espressività vocale che è propria del canto proveniente dalla Liguria e dalla Sardegna.
Il primo dei canti di lavoro, il cui titolo BIROCC AL VA ricorda una professione scomparsa da pochi decenni, racconta della grottesca vendita di un marito e viene cantata su una melodia notissima e che spessoriveste altre parole.
Il secondo canto, che comincia con le parole SON GIÀ TRE ANNI , era legato al lavoro dei minatori e subì una rilevante trasformazione quando, durante la guerra '15-'18, gli alpini, mutandone il testo, diedero inizio al «nuovo» canto che da quello era nato e che prese il nome di «Monte Canino». Non ne risultò cambiato, però, il lento, doloroso andamento.
Segue un canto della «ligêra» in dialetto bolognese (ligêra era la manovalanza generica, quella meno qualificata, che lavorava nei grandi cantieri d'inizio secolo: bonifiche, trafori di gallerie ecc.) dal titolo FÂT FÔRZA LEGÊRA .
Con O CARA MAMA torniamo nel mondo del lavoro femminile: a migliaia, d'estate, le donne partivano per il lavoro in risaia. Trovavano il caldo, l'acqua stagnante, le zanzare, il mangiare cattivo; in cambio pochi soldi e, spesso, la salute rovinata.
In BUONGIORNO GAETANO abbiamo, invece, messo a confronto duemondi tanto distanti come quello del contadino e quello del fattore: non poteva non esserci contrasto! E «contrasto», appunto, veniva chiamato questo tipo di canto che i cantastorie presentavano nei paesi durante le fiere e i mercati.
Ed eccoci IN FILANDA con un'altra protagonista che racconta alla madre la sua triste storia: «è il direttore della filanda che ha tradito questo mio cuor».
Nel penultimo canto abbiamo un esempio di «spot pubblicitario» del secolo scorso: cantando SIAM CALDERAI questi artigiani ambulanti reclamizzavano la propria abilità che, a sentir loro, non si limitava alla riparazione di pentole e tegami, ma che riguardava il rapporto con le rappresentanti del gentil sesso con le quali erano quotidianamente in contatto.
Da ultimo il notissimo OH VILAN! vero e proprio inno della valle padana, con la caratteristica vocalità aperta e un po' «sguaiata» e i suoi quadretti vivaci e coloriti di vita contadina.
Al termine della presentazione dei canti vogliamo rammentare che i testi e le melodie sono stati mantenuti assolutamente fedeli a quanto l'informatore ha trasmesso nella data e nel luogo citati dopo i rispettivi testi: quindi niente «ricostruzione»; operazione purtroppo diffusa, che consiste nel prelevare da diverse lezioni dello stesso canto, raccolte in tempi e luoghi diversi, alcune parti per assemblarle assieme, con la pretesa che il prodotto ottenuto sia «l'originale», o la lezione più «completa». Il nostro intervento sul canto, così come è stato trovato, riguarda solo il tessuto armonico, nel tentativo di ricostruire quell'atmosfera che un tempo era attorno al canto, quando davvero veniva «usato».
Giorgio Vacchi