Voci... come un alito di vento
La raccolta
Nello scegliere i venti canti di questa breve raccolta ho cercato che fossero rappresentate un po' tutte le zone della nostra provincia e, specialmente, le diverse .forme con cui il canto popolare si presenta.
Dalla ballata alla ninna-nanna, dal canto d'omaggio al canto natalizio, con un particolare riguardo ai canti di lavoro (cinque).
Ho però voluto anche rendere omaggio agli amici che si .sono lasciati contagiare... dal morbo della ricerca, cui va il merito del salvataggio di tanti documenti della cultura popolare. Primo fra tutti Paolo Bernardini che sta operando tenacemente nella zona di Gaggio Montano e, inoltre, Camillo Consolini e Arrigo Montanari per la zona di Monzuno e Monghidoro, Mario Cassarini per Castiglione dei Pepoli, Milena Melloni per Pieve di Cento i fratelli Luciano e Giorgio Serra per Bologna ed infine i ricercatori che operano in provincia di Reggio Emilia, Roberto Ferrari per l'Appennino Toanese e Onelio Mattioli per la zona di Scandiano.
Il disco
I primi nove canti della raccolta sono riproposti nel disco nell'esecuzione del Coro “Stelutis” di Bologna.
Il coro, nato a Bologna nel 1954, nel solco della tradizione del “Canto di montagna” si discostò da quella esperienza man mano che andava scoprendo la ricchezza del canto popolare della propria regione.
Al lavoro di ricerca e raccolta seguì quello di elaborazione, nel tentativo di riproporre al pubblico le atmosfere e le sensazioni che i canti suscitavano allora, quando il popolo (e non un coro) li cantava. Non vogliamo quindi contrabbandare le esecuzioni corali per “canto popolare”: questo rimane legato alle voci degli “informatori” che citiamo nella raccolta.
Il coro vuole solo tramandare i contenuti dei canti che ritiene ancora importanti e spesso attuali, e cogliere qualcuna di quelle sensazioni, di quelle atmosfere.
Giorgio Vacchi
Nel pubblicare questa brevissima raccolta di canti popolari emiliani, ed il disco con la riproposta corale di alcuni di essi, crediamo indispensabile premettere, sia pur brevemente, le considerazioni e le motivazioni che hanno spinto a muoverci in questa direzione dando, nel contempo, una "chiave di lettura”, tra le tante possibili, per la comprensione di questi documenti della cultura popolare e della loro riproposta da parte di un gruppo corale.
Va detto, innanzitutto, che si tratta semplicemente di un “assaggio” (pensate a ciò che avviene in tanti nostri ristoranti, quando ti presentano una "forchettata” di ogni piatto per invogliarti e indirizzarti ad una scelta!; questi canti, infatti, se pur scelti con il criterio di rappresentare un'area abbastanza vasta della nostra provincia (con qualche sconfinamento) e una gamma non piccola di ''forme”, fanno parte di una raccolta di ben altra entità, frutto di una ricerca svolta nell'arco dell'ultimo ventennio.
Ricerca condotta negli anni sessanta con Francesco Guccini e, in seguito, con numerosi "volontari” operanti in varie zone nell'ambito dell'attività dell'AERCO (Associazione Emiliano Romagnola Cori). Solo l'esistenza di questo ricco materiale giustifica infatti la pubblicazione di questa ristrettissima raccolta, altrimenti difficilmente motivabile, e la speranza che l'assaggio invogli gli Enti locali cui sarebbe demandato il recupero anche di tali patrimoni culturali a seguire l'esempio che la Cassa di Risparmio in Bologna ha dato patrocinando questa pubblicazione.
Ma ritorniamo indietro per chiarire alcuni concetti,credo fondamentali, insiti nelle risposte alle domande seguenti:
cos'è canto popolare? perche ricercarlo e raccoglierlo? E ancora: è lecito riproporlo in “forme” diverse, ad esempio “coralmente”?
Canto popolare è un aspetto particolare della “cultura popolare”, cioè di quella cultura che si contrappone, come intuì Gramsci, al modo ufficiale di concepire il mondo e la vita.
Espressione degli strati piùbassi della società, essa è stata tramandata specialmente grazie al mondo contadino che ne è il naturale depositario. Oggetto di studio da tempi abbastanza recenti (appena un secolo e mezzo fa) la “cultura popolare” venne ribattezzata a metà dell'800 “folklore” da un archeologo inglese, Ambrose Merton, che riunì due parole d'origine sassone ( folk = popolo e lore == sapere).
Da "sapere del popolo" il termine presto assunse anche il significato di “scienza che studia il sapere del popolo” mentre sotto questa etichetta andavano man mano diversificandosi settori più specialistici: da quello sociologico a quello storico, da quello filologico a quello antropologico, ecc.. Ma questa scienza ha avuto in Italia applicazione scarsa e tardiva: fino ad alcuni decenni fa, pochi si sono interessati al folklore, anche se fra questi alcune personalità sono state di rilievo (ricordiamo per tutti Costantino Nigra, Giuseppe Pitré, Alessandro D'Ancona).
Più recentemente Giuseppe Cocchiara, Ernesto De Martino, Diego Carpitella, Vittorio Sàntoli, Roberto Levdi, Paolo Toschi ed altri hanno dato impulso alla ricerca e agli studi folklorici.
Pochissimi poi coloro che hanno operato nella nostra regione: fra questi Giuseppe Ferraro e Benedetto Pergoli alla fine del secolo scorso e OresteTrebbi, Gaspare Ungarelli e Francesco Balilla Pratella nei primi decenni del '900. Negli anni '30 sideve a Mario Borgatti l'edizione a stampa di una raccolta della fine dell'800 mentre tuttora operano,dopo aver già pubblicato materiale di notevole interesse, anche conducendo ricerche "sul campo” Marcello Conati, Giorgio Vezzani, Giuseppe Bellosi.
Quanto ad Enti o Associazioni impegnate al riguardo, possiamo ricordare il "Centro Etnografico Ferrarese”, la già citata AERCO, talune “Comunità Montane” e, episodicamente, qualche rivista d'interesse locale.
Ma stavamo per rispondere alla domanda “che cos'è il canto popolare?”.
Almeno quattro gli elementi che lo identificano:
1) la trasmissione orale, che consente la modificazione continua del testo e della melodia nel suo passare di bocca in bocca
2) l'anonimato: normalmente cioè l'autore è sconosciuto o, più precisamente, pur potendolo conoscere, non interessa identificarlo
3) il rapporto fra testo e melodia, che risulta rovesciato rispetto al canto d'autore. Nel canto popolare è la melodia al servizio del testo, che la domina nettamente, relegandola sovente al mero ruolo di elemento memorizzante
4) la funzione: il canto popolare non è infatti solo oggetto di godimento ma piuttosto soggetto (o com-primario) di un momento di vita, con una sua precisa "funzione" da esplicare.
Ciò premesso è lecito chiedersi che senso abbia raccogliere il canto popolare avulso dal contesto che lo tiene (o lo ha tenuto) in vita. Diciamo subito che non ha senso, giacché solo un complesso unitario che, forte di questa “unita”, si ponga in posizione alternativa nei riguardi della cultura egemone potrà, se oggetto degli stessi stimoli critici cui questa è sottoposta, avere qualche probabilità di sopravvivenza.
D'altronde, scrive il Conati, " l'arbitrarietà di un'operazione intesa a estrarre dalla cultura popolare un suo particolare aspetto, si giustifica nella misura in cui tale operazione viene vista e sentita all'interno delle strutture di quella cultura come strumento per la sua emancipazione come momento propedeutico per un intervento che ne riaffermi il carattere alternativo: non rifiutando il contributo che le tecniche scientifiche (anche quelle d'origine accademica, come ad esempio la filologia) possono arrecare alla conoscenza e alla comprensione del fenomeno “'.
”Nè si dovrà” , prosegue inoltre il Conati, “ indulgere a nostalgici rimpianti per il "buon tempo antico": sentimento pericoloso e profondamente reazionario, poiché la storia non torna mai indietro.
Il canto di una mondina o di un minatore saranno anche molto belli da ascoltarsi, ma non dimentichiamo quale vita di sofferenze era, ed è ancora, la vita della risaia, la vita della miniera. La polenta sarà anche un cibo sano e appetitoso, ma non è da dimenticare che, quando si mangiava solo polenta perché non c'era altro da mangiare, ci si ammalava di pellagra. I costumi regionali, che oggi "fanno tanto E.P.T.", saranno anche belli, eleganti, fantasiosi, ma non dimentichiamo che essi sono il risultato di leggi suntuarie con le quali gli antichi "signori" proibivano ai loro sottomessi l'impiego di certe stoffe, di determinate fogge “.
E siamo all'ultima domanda : “è lecito riproporre canti popolari in forme diverse?”.
Diciamo subito che l'industria del divertimento non ha certo chiesto il permesso per appropriarsi di questo materiale, nè si è interrogata sulla liceità dell'operazione: ha saccheggiato a destra e a manca, dal repertorio delle mondine ai canti di filanda, dalle filastrocche infantili alle ballate epico-liriche. Ne sono nate canzonette e colonne sonore per sceneggiati televisivi, sigle di radio private e “inni” di società calcistiche: per non parlare dello scempio condotto dall'industria pubblicitaria alla ricerca di una melodia da abbinare al “mulino più bianco” o alla “mozzarella più magra”. Giustamente condannato, questo scempio, dagli studiosi del folklore, è però avvenuto che nella condanna si siano volute accomunare tutte le altre esperienze di utilizzo del materiale sonoro popolare (le nostre considerazioni prendono qui in esame solo i “canti popolari”) col risultato che un'accusa altrettanto grave è giunta, di rimando, agli specialisti e studiosi, cui si rimprovera, come scrive Bepi Carone. un “esclusivismo barricato dietro linguaggi complicati che tolgono la possibilità di restituire alla consapevolezza quotidiana i materiali indagati”. A nostro avviso, invece, certi esempi di utilizzazione del materiale folkloristico come ad esempio quello che negli anni '60 venne etichettato come “folk-revival” e che prosperò al seguito del “Nuovo Canzoniere Italiano”, furono non solo leciti, ma ebbero anche non pochi meriti, primo fra tutti quello di risvegliare l'interesse per la cultura del mondo popolare. Assolutamente ingiustificata, però, la rigida posizione che, qualche anno più tardi, i leaders del folk-revival (legati per lo più all'istituto Ernesto De Martino) assunsero nei confronti di esperienze diverse dalla loro, posizione che prestava il fianco a critiche che li voleva, come scriveva Umberto Mosca, una sorta di " Ispettorato della Folklorizzazione che rilascia patenti di Folk solo a quei pochi eletti che giurano di non contaminarsi con la palude circostante”.
Noi invece riteniamo sia importante reinventare continuamente pratiche e metodologie, nell'ambito di una “cultura integrata che sia” , come scrive Paolo Natali “ interprete nelle sue multiformi espressioni di tutte le istanze, di tutti i livelli di formazione esistenti nella società e alla cui creazione sia messo in grado di partecipare ogni settore sociale sulla base di una visione unitaria dell'uomo”.
Anche l'intervento dell'artista, quindi, che si muova al di fuori di ogni logica consumistica e che. profondamente inserito nel suo tempo, creda che la cultura delle classi subalterne possa, e debba, diffondersi anche con espressività nuove e diverse, è a nostro avviso quanto mai lecito.
Al contrario avverrebbe l'assurdo che solo lui, del popolo, risulterebbe escluso dal processo di evoluzione culturale.
Non c'è dubbio, inoltre, che la scelta dello "strumento" coro, già “popolo” esso stesso nella sua qualità di aggregato di individui impegnati in una pratica “amatoriale”, indica chiaramente che si opera, al di fuori del mondo del profitto, verso quella “cultura integrata” di cui si parlava.
E vorrei finire facendo mie le parole con cui, alcuni anni fa, Roberto Leydi presentava il primo quaderno dedicato alla cultura tradizionale in Lombardia, parole tuttora validissime. "Noi riteniamo che questi pochi esempi possano far nascere, in chi legge e in chi ascolta, attenzione nuova, perplessità, motivi di considerazione e di riflessione. Tutto sta nel porsi innanzi a questo materiale non come di fronte a documenti arcaici o esotici, non come di fronte a voci di remoti "primitivi" appartenenti a un mondo lontano e quasi scomparso o a patetici avanzi di un civiltà in via di estinzione".
“Queste voci vanno ascoltate non già come l'eco di un mondo che muore e non appartiene a un oggi così diverso, ma come la testimonianza della esistenza, all'interno di un paesaggio che sembra interamente occupato dal sistema industriale moderno, con tutte le sue dure conseguenze, di un filo di cultura autonoma e "altra", cioè di una "civiltà" con una sua storia, una sua cultura, con una sua visione del mondo, ancora capace, pur in una drammatica condizione di crisi, di resistere alla deculturazione e all'alienazione”.
Giorgio Vacchi