Il Coro Stelutis in concerto a São Paulo

São Paulo Monumento della libertà

Dire che sia un coro e nient’altro è troppo poco. Dietro il Centro Culturale Stelutis, diretto da Giorgio e Silvia Vacchi, c’è una ricerca originale di mezzo secolo e più che parte dal nome friulano delle stelle alpine e dai modelli trentini di SAT e SOSAT, per poi aggredire il contesto emiliano e i canti contadinicon cui dare vita a un repertorio corale composto da migliaia di brani in massima parte di origine popolare ma anche d’autore. Lo stesso Francesco Guccini è stato preso nel giro e negli anni scorsi ha contribuito attivamente alla ricerca.

Lunedì 21 novembre lo Stelutis si è esibito a San Paolo presso il Teatro del Colégio Dante Alighieri, prima di recarsi a Criciúma nello Stato di Santa Catarina, dove è stato invitato a partecipare al XIII Festival internazionale di musica corale e a celebrare con gli altri la riapertura del Teatro Elias Angeloni. Il gruppo è composto da una cinquantina di elementi, con due sezioni femminili di soprani e contralti che si aggiungono alle tradizionali sezioni maschili di tenori, baritoni e bassi. Questa caratteristica, combinata a un’armonizzazione accattivante e a tratti quasi “rabbiosa”, conferisce alle esecuzioni una sonorità tutta speciale, affinata in più di mille concerti. Mille contati, non tanto per dire, anche in teatri blasonati come il Regio di Parma e il San Babila di Milano, in Italia e all’estero, per esempio a Lugano e a New York, Baltimora e Washington. Nei cd prodotti, una dozzina, ci sono canti vecchi e nuovi, temi religiosi e del lavoro, di pianura e di montagna, tutti raccolti dalla viva voce di informatori di cui anche nei programmi dei concerti si cita puntigliosamente il nome e l’anno di nascita, con il luogo e la data della “scoperta”, e cioè della prima registrazione sul campo da parte dei ricercatori.

La proposta al pubblico di San Paolo si è aperta con un canto di minatori, “Già son tre anni”, seguito da “Nella Somalia bella”, un canto di guerra, la guerra delle madri che resistono in silenzio alla partenza dei figli, li aspettano e finalmente li accolgono, quando tornano, in un mondo che non è più come prima. E poi altri canti sulla condizione femminile di lavoro duro nelle risaie e nei campi, di emigrazione, di devozione, di fatica. Particolari e suggestivi “Ci vuol pazienza”, che ha dato il titolo anche a un cd, e “La canapa”. L’epica dello Stelutis è fatta di parole e musiche che si distaccano alquanto dal genere dei classici repertori alpini. La sua identità consiste in due ingredienti, sapientemente amalgamati: sonorità e realismo.

Nell’esecuzione non c’è nulla di blando o rarefatto, non c’è posto per echi o riflessi di cime bianche e innevate. I brani che abbiamo ascoltato ci sono sembrati l’immagine viva di un mondo emiliano d’epoca fissata nel presente con il sale della vocalità. Forse è frutto della suggestione, ma anche il simbolo dello Stelutis, una stella alpina stampata sulle maglie e sui berrettini dei coristi, nel colore e nella forma ci è parso che abbia acquistato qualcosa di appenninico.